Un Tribunale ha condannato per il reato di omicidio colposo, in concorso fra loro, il responsabile dei lavori nonché coordinatore per la progettazione e per l'esecuzione di un cantiere edile installato per dei lavori di ampliamento di uno stabilimento industriale, ed il legale rappresentante dell’impresa appaltatrice per aver cagionata la morte di un lavoratore dipendente della ditta appaltatrice medesima commettendo il fatto in violazione di alcune norme antinfortunistiche ed in particolare, per quanto riguarda il coordinatore, degli articoli 2 e 4, commi 1 e 2, e 5, del D. Lgs. n. 494 del 1996 e, per quanto riguarda il legale rappresentante dell’impresa appaltatrice, degli articoli 4 ed 8 del medesimo D. Lgs. n. 494 del 1996. L'operaio infortunato, salito sulla copertura di un capannone, costituita in parte da pannelli in vetroresina traslucidi non calpestabili, senza alcun mezzo di protezione né individuale né collettivo, durante le operazioni di dismissione della preesistente copertura grecata del capannone stesso nonché di predisposizione per il successivo montaggio di nuovi tegoli, poggiando il proprio peso su uno dei suddetti pannelli in vetroresina ne ha provocato lo sfondamento precipitando al suolo da un'altezza di circa dieci metri, riportando trauma cranio - encefalico e trauma toracico che ne hanno determinato il decesso.
La Corte d'Appello ha confermata la sentenza di condanna degli imputati emessa dal Tribunale. Tale Corte ha ritenuto indubitabile che il coordinatore avesse assunto una specifica posizione di garanzia che lo esponeva a responsabilità per le conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi connessi a tale posizione. La stessa ha posto, altresì, in evidenza che dalle indagini era emerso che prima dell'avviamento dei lavori di ampliamento del capannone vi era stata una riunione tecnica di coordinamento alla quale aveva partecipato anche il coordinatore e durante la quale si era stabilito che, essendo i lavori di rimozione di una scossalina che ricopriva il tetto del vecchio capannone da eseguire "in quota", si rendeva necessaria, come del resto previsto dal piano di sicurezza, la predisposizione di dispositivi di protezione individuali e collettivi contro il rischio di caduta dall'alto, risultati del tutto assenti nel caso concreto. Al committente del resto, con una lettera inviata per conoscenza anche al coordinatore, era stato fatto presente che il capannone commissionato presentava lucernai a raso, ottenuti mediante distanziamento dei tegoli, non pedonabili per cui veniva consigliato di collocare una rete anti - caduta sotto le lastre traslucide, al di sotto delle quali non vi era alcuna struttura, e ciò "al fine di scongiurare spiacevoli eventi". Il coordinatore pertanto, ha sostenuto la Corte di Appello, era assolutamente consapevole della natura dei lavori che la ditta appaltatrice avrebbe dovuto eseguire "in quota" e della peculiare pericolosità degli stessi e non aveva provveduto a verificare l'applicazione delle disposizioni del piano operativo di sicurezza elaborato dalla ditta stessa con opportune azioni di effettivo controllo e non aveva neanche valutata la specifica proposta avanzata dall’impresa diretta a migliorare la sicurezza in cantiere, proprio con riferimento alle lastre traslucide poste sul tetto del capannone.
Quindi, ha sostenuto la Corte di Appello nella sua sentenza di conferma della condanna, se il coordinatore fosse intervenuto sui luoghi verificando l'assenza dei dispositivi di sicurezza sia individuali (cinture di sicurezza con bretelle collegate a dispositivi di trattenuta) che collettivi, (come, ad esempio, la predisposizione di reti di protezione in corrispondenza delle lastre traslucide), l'evento non si sarebbe verificato. La stessa Corte non ha altresì condivisa l’osservazione difensiva del coordinatore secondo cui il ruolo ricoperto da questa figura non impone un obbligo di presenza costante in cantiere, in quanto, in base alle norme di riferimento, grava certamente sullo stesso l'obbligo di verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione da parte delle imprese esecutrici delle disposizioni di loro pertinenza contenute nel piano di sicurezza, nonché la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, obblighi da intendersi necessariamente connessi a chi conduce effettivamente il cantiere. Quanto al rilievo dell'appellante che ha prospettata l'abnormità della condotta dell'operaio infortunato per essersi questi portato sul tetto del capannone mentre avrebbe dovuto invece lavorare restando all'interno di un cestello elevatore presente in cantiere, la Corte di Appello non ha condiviso tale tesi in quanto dalle indagini è emerso chiaramente che il lavoratore non avrebbe potuto eseguire talune operazioni se non portandosi sulla copertura zincata del capannone abbandonando il cestello stesso.
Per quanto riguarda poi le motivazioni della difesa del rappresentante legale della impresa appaltatrice la Corte di Appello ha semplicemente fatto osservare che dal piano operativo per la sicurezza redatto dalla stessa ditta risultava che era stata prevista, in relazione all'esecuzione di lavori di dismissioni della copertura del capannone, la presenza, in relazione alla possibilità di caduta dall'alto, di andatoie e parapetti, prescrivendosi anche l'adozione di cinture di sicurezza con fune di trattenuta vincolata ad elementi stabili del fabbricato, precauzione questa risultata assente in cantiere
Il ricorso e le decisioni della Corte di Cassazione.
Entrambi gli imputati hanno fatto ricorso alla Corte di Cassazione riproponendo sostanzialmente le tesi difensive già sottoposte al vaglio dei giudici di merito. Nel ricorso il coordinatore ha sostenuto, fra l’altro, che solo il datore di lavoro sarebbe titolare del potere gerarchico nei confronti dei lavoratori impegnati nel cantiere con l'obbligo di individuare i rischi e prevenirli mentre al coordinatore spetterebbe principalmente la verifica circa il rispetto delle regole dettate dal piano di sicurezza e di coordinamento, senza alcun obbligo di una sua continua e giornaliera presenza in cantiere ed ha sostenuto, altresì, che non vi sarebbe nesso di causalità fra la sua condotta e l’evento infortunistico essendo questo esclusivamente riconducibile alla condotta colposa del datore di lavoro ed alla improvvisa ed autonoma iniziativa del lavoratore. L’ impresa appaltatrice dal canto suo ha sostenuto che i lavori ad essa appaltati non erano da eseguirsi in quota ma solo esclusivamente a terra essendo stati i lavori di copertura affidati dal committente ad altra impresa.
Entrambi i ricorsi degli imputati sono stati rigettati dalla suprema Corte che ha pertanto confermata la loro condanna. Nel far ciò la Sez. IV ha formulato delle osservazioni e delle considerazioni per quanto riguarda la figura del coordinatore. “In tema di infortuni sul lavoro”, ha sostenuto la stessa, “il coordinatore per la progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l'individuazione, l'analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, ai sensi dell'articolo 5 stesso Decreto Legislativo, ha i compiti: (a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l'applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza; (b) di verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere; (c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni”. “Trattasi di figure” ha proseguito la suprema Corte, “le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori”.
La Sez. IV ha altresì citate le conclusioni alle quali la stessa Corte di Cassazione è pervenuta nell’esaminare un altro caso in cui il coordinamento per la progettazione e per l’esecuzione veniva fatto dalla stessa figura professionale. In un caso nel quale l'imputato rivestiva entrambe le qualifiche, ha fatto presente la Sez. IV, la stessa Corte “ha ritenuto che le giustificabili lacune del piano di sicurezza redatto in qualità di coordinatore per la progettazione avrebbero dovuto essere colmate attraverso una concreta e puntuale azione di controllo, che competeva allo stesso imputato in qualità di coordinatore per esecuzione, e la cui omissione comportava la sua responsabilità in ordine al sinistro verificatosi" (Sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008 dep. 08/05/2008). Anche la Corte suprema quindi, allineandosi a quella di Appello, ha affermato che non vi è alcun dubbio sul nesso di causalità tra il mancato controllo del coordinatore e l'evento, stante l'inosservanza di ogni intervento cautelare finalizzato ad evitare il verificarsi dell’infortunio mortale e l’assenza di dispositivi di protezione individuali e collettivi contro il rischio di caduta dall'alto, la cui predisposizione era stata prevista dal piano di sicurezza della ditta e che, se esistenti, avrebbero impedito l'evento.
Circa l’osservazione più volte fatta in merito al comportamento anomalo del lavoratore che avrebbe provveduto autonomamente a salire sulla copertura del capannone, la Sez. IV ha fatto osservare che “la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa” ed ancora che “è stato affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il condivisibile principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento”.
In merito poi alle affermazioni fatte dal coordinatore circa l’obbligo di controllo delle operazioni poste a carico esclusivo del datore di lavoro e le funzioni poste a carico della figura del coordinatore stesso che non vuole essere una duplicazione di quella del datore di lavoro o del responsabile delle imprese appaltatrici ma trova una sua ragione d’essere ed un proprio ruolo in caso di compresenza di più soggetti che operano nello stesso cantiere e per cui si rende necessario il suo coordinamento, la suprema Corte ha tenuto a precisare che proprio tale azione è risultata mancante nel caso in esame. La Sez. IV ha quindi proseguito richiamando, a proposito, un consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità nell’ipotesi in cui si riscontri la presenza di una pluralità di garanti. “Se più sono i titolari della posizione di garanziaod obbligo di impedire l'evento”, ha quindi concluso la Sez. IV, “ciascuno è, per intero, destinatario di quell'obbligo, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è, però, doveroso per l'altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente e adeguatamente intervenuto. Se uno dei garanti è intervenuto e l'altro o gli altri, resi edotti dell'intervento e del tipo di intervento, hanno le capacità tecniche per rendersi conto dei limiti, delle insufficienze di quell'intervento, gli stessi non hanno il diritto di confidare nell'efficacia di quel precedente intervento, anche se effettuato da chi aveva specifiche capacità tecniche, sicché versano in colpa se confidano nello stesso".
La Corte d'Appello ha confermata la sentenza di condanna degli imputati emessa dal Tribunale. Tale Corte ha ritenuto indubitabile che il coordinatore avesse assunto una specifica posizione di garanzia che lo esponeva a responsabilità per le conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi connessi a tale posizione. La stessa ha posto, altresì, in evidenza che dalle indagini era emerso che prima dell'avviamento dei lavori di ampliamento del capannone vi era stata una riunione tecnica di coordinamento alla quale aveva partecipato anche il coordinatore e durante la quale si era stabilito che, essendo i lavori di rimozione di una scossalina che ricopriva il tetto del vecchio capannone da eseguire "in quota", si rendeva necessaria, come del resto previsto dal piano di sicurezza, la predisposizione di dispositivi di protezione individuali e collettivi contro il rischio di caduta dall'alto, risultati del tutto assenti nel caso concreto. Al committente del resto, con una lettera inviata per conoscenza anche al coordinatore, era stato fatto presente che il capannone commissionato presentava lucernai a raso, ottenuti mediante distanziamento dei tegoli, non pedonabili per cui veniva consigliato di collocare una rete anti - caduta sotto le lastre traslucide, al di sotto delle quali non vi era alcuna struttura, e ciò "al fine di scongiurare spiacevoli eventi". Il coordinatore pertanto, ha sostenuto la Corte di Appello, era assolutamente consapevole della natura dei lavori che la ditta appaltatrice avrebbe dovuto eseguire "in quota" e della peculiare pericolosità degli stessi e non aveva provveduto a verificare l'applicazione delle disposizioni del piano operativo di sicurezza elaborato dalla ditta stessa con opportune azioni di effettivo controllo e non aveva neanche valutata la specifica proposta avanzata dall’impresa diretta a migliorare la sicurezza in cantiere, proprio con riferimento alle lastre traslucide poste sul tetto del capannone.
Quindi, ha sostenuto la Corte di Appello nella sua sentenza di conferma della condanna, se il coordinatore fosse intervenuto sui luoghi verificando l'assenza dei dispositivi di sicurezza sia individuali (cinture di sicurezza con bretelle collegate a dispositivi di trattenuta) che collettivi, (come, ad esempio, la predisposizione di reti di protezione in corrispondenza delle lastre traslucide), l'evento non si sarebbe verificato. La stessa Corte non ha altresì condivisa l’osservazione difensiva del coordinatore secondo cui il ruolo ricoperto da questa figura non impone un obbligo di presenza costante in cantiere, in quanto, in base alle norme di riferimento, grava certamente sullo stesso l'obbligo di verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione da parte delle imprese esecutrici delle disposizioni di loro pertinenza contenute nel piano di sicurezza, nonché la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, obblighi da intendersi necessariamente connessi a chi conduce effettivamente il cantiere. Quanto al rilievo dell'appellante che ha prospettata l'abnormità della condotta dell'operaio infortunato per essersi questi portato sul tetto del capannone mentre avrebbe dovuto invece lavorare restando all'interno di un cestello elevatore presente in cantiere, la Corte di Appello non ha condiviso tale tesi in quanto dalle indagini è emerso chiaramente che il lavoratore non avrebbe potuto eseguire talune operazioni se non portandosi sulla copertura zincata del capannone abbandonando il cestello stesso.
Per quanto riguarda poi le motivazioni della difesa del rappresentante legale della impresa appaltatrice la Corte di Appello ha semplicemente fatto osservare che dal piano operativo per la sicurezza redatto dalla stessa ditta risultava che era stata prevista, in relazione all'esecuzione di lavori di dismissioni della copertura del capannone, la presenza, in relazione alla possibilità di caduta dall'alto, di andatoie e parapetti, prescrivendosi anche l'adozione di cinture di sicurezza con fune di trattenuta vincolata ad elementi stabili del fabbricato, precauzione questa risultata assente in cantiere
Il ricorso e le decisioni della Corte di Cassazione.
Entrambi gli imputati hanno fatto ricorso alla Corte di Cassazione riproponendo sostanzialmente le tesi difensive già sottoposte al vaglio dei giudici di merito. Nel ricorso il coordinatore ha sostenuto, fra l’altro, che solo il datore di lavoro sarebbe titolare del potere gerarchico nei confronti dei lavoratori impegnati nel cantiere con l'obbligo di individuare i rischi e prevenirli mentre al coordinatore spetterebbe principalmente la verifica circa il rispetto delle regole dettate dal piano di sicurezza e di coordinamento, senza alcun obbligo di una sua continua e giornaliera presenza in cantiere ed ha sostenuto, altresì, che non vi sarebbe nesso di causalità fra la sua condotta e l’evento infortunistico essendo questo esclusivamente riconducibile alla condotta colposa del datore di lavoro ed alla improvvisa ed autonoma iniziativa del lavoratore. L’ impresa appaltatrice dal canto suo ha sostenuto che i lavori ad essa appaltati non erano da eseguirsi in quota ma solo esclusivamente a terra essendo stati i lavori di copertura affidati dal committente ad altra impresa.
Entrambi i ricorsi degli imputati sono stati rigettati dalla suprema Corte che ha pertanto confermata la loro condanna. Nel far ciò la Sez. IV ha formulato delle osservazioni e delle considerazioni per quanto riguarda la figura del coordinatore. “In tema di infortuni sul lavoro”, ha sostenuto la stessa, “il coordinatore per la progettazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articolo 4 ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l'individuazione, l'analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, ai sensi dell'articolo 5 stesso Decreto Legislativo, ha i compiti: (a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l'applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza; (b) di verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere; (c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni”. “Trattasi di figure” ha proseguito la suprema Corte, “le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori”.
La Sez. IV ha altresì citate le conclusioni alle quali la stessa Corte di Cassazione è pervenuta nell’esaminare un altro caso in cui il coordinamento per la progettazione e per l’esecuzione veniva fatto dalla stessa figura professionale. In un caso nel quale l'imputato rivestiva entrambe le qualifiche, ha fatto presente la Sez. IV, la stessa Corte “ha ritenuto che le giustificabili lacune del piano di sicurezza redatto in qualità di coordinatore per la progettazione avrebbero dovuto essere colmate attraverso una concreta e puntuale azione di controllo, che competeva allo stesso imputato in qualità di coordinatore per esecuzione, e la cui omissione comportava la sua responsabilità in ordine al sinistro verificatosi" (Sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008 dep. 08/05/2008). Anche la Corte suprema quindi, allineandosi a quella di Appello, ha affermato che non vi è alcun dubbio sul nesso di causalità tra il mancato controllo del coordinatore e l'evento, stante l'inosservanza di ogni intervento cautelare finalizzato ad evitare il verificarsi dell’infortunio mortale e l’assenza di dispositivi di protezione individuali e collettivi contro il rischio di caduta dall'alto, la cui predisposizione era stata prevista dal piano di sicurezza della ditta e che, se esistenti, avrebbero impedito l'evento.
Circa l’osservazione più volte fatta in merito al comportamento anomalo del lavoratore che avrebbe provveduto autonomamente a salire sulla copertura del capannone, la Sez. IV ha fatto osservare che “la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa” ed ancora che “è stato affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il condivisibile principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento”.
In merito poi alle affermazioni fatte dal coordinatore circa l’obbligo di controllo delle operazioni poste a carico esclusivo del datore di lavoro e le funzioni poste a carico della figura del coordinatore stesso che non vuole essere una duplicazione di quella del datore di lavoro o del responsabile delle imprese appaltatrici ma trova una sua ragione d’essere ed un proprio ruolo in caso di compresenza di più soggetti che operano nello stesso cantiere e per cui si rende necessario il suo coordinamento, la suprema Corte ha tenuto a precisare che proprio tale azione è risultata mancante nel caso in esame. La Sez. IV ha quindi proseguito richiamando, a proposito, un consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità nell’ipotesi in cui si riscontri la presenza di una pluralità di garanti. “Se più sono i titolari della posizione di garanziaod obbligo di impedire l'evento”, ha quindi concluso la Sez. IV, “ciascuno è, per intero, destinatario di quell'obbligo, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è, però, doveroso per l'altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente e adeguatamente intervenuto. Se uno dei garanti è intervenuto e l'altro o gli altri, resi edotti dell'intervento e del tipo di intervento, hanno le capacità tecniche per rendersi conto dei limiti, delle insufficienze di quell'intervento, gli stessi non hanno il diritto di confidare nell'efficacia di quel precedente intervento, anche se effettuato da chi aveva specifiche capacità tecniche, sicché versano in colpa se confidano nello stesso".
Per quanto riguarda, infine, la posizione del datore di lavoro e la sua affermazione di avere informato e formato adeguatamente i propri lavoratori dipendenti sui rischi presenti in cantiere e sulla necessità di utilizzare i dispositivi di protezione individuali, la Sez. IV ha avuto modo di ribadire quanto già affermato in precedenza in occasione di altre sentenze e cioè che il datore di lavoro deve effettuare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino le norme di sicurezza ed adottino le misure in esse previste. “Il datore di lavoro”, ha così concluso la suprema Corte, ”deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro”.
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La Corte di Appello di Milano, con la sentenza 23 ottobre 1998, analizzando quelle norme in cui l'accento è posto proprio sul verbo “sovrintendere”, ha autorevolmente sostenuto che “l'accento ... è posto su “tale verbo”, che, secondo il suo significato letterale, confermato da un concorde orientamento della dottrina e della giurisprudenza, indica essenzialmente un'attività rivolta a vigilare sul lavoro dei dipendenti, per garantire che esso si svolga nel pieno rispetto delle regole di sicurezza imposte dalla legge e dagli organi dirigenti dell'azienda e comporta anche un limitato potere di impartire ordini e istruzioni di natura meramente esecutiva”.
Il tratto essenziale di tale funzione è vigilare, e la vigilanza “dovrebbe consistere in un assiduo controllo dello svolgimento dell'attività lavorativa, in conformità ai modi, ai tempi e agli obiettivi fissati in via generale dai superiori gerarchici (i dirigenti) e sulla base dei criteri di massima, con i mezzi, le attrezzature e i presidi di sicurezza dagli stessi preordinati” (Di Lecce, Culotta, Costagliola, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, Pirola editore, Milano 1997 pag. 138)
Il sovrintendere richiede però un requisito preliminare, ovvero il possesso di una supremazia riconosciuta sugli altri lavoratori: viene infatti definito dalla sentenza della Cassazione pen. n. 760/91 come “chiunque si trovi in posizione tale da dover dirigere e sorvegliare l'attività lavorativa di altri operai ai suoi ordini”.
La individuazione dei destinatari delle norme antinfortunistiche “va compiuta non tanto in relazione alla qualifica rivestita nell'ambito dell'organizzazione aziendale ed imprenditoriale quanto, soprattutto, con riferimento alle reali mansioni esercitate che importino le assunzioni di fatto delle responsabilità a quelle inerenti, la qualifica e le responsabilità del preposto non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali o di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione di supremazia, sia pure embrionale, tale da porlo in condizioni di dirigere l'attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini; in sostanza preposto può essere chiunque, in una formazione per quanto piccola di lavoratori, esplichi le mansioni di caposquadra al di fuori della immediata direzione di altra persona a lui soprastante” (Corte di Cassazione Penale, 6 luglio 1988 n° 7999, Chierici ed altro, in motivazione).
In questo caso il preposto svolge un compito che, definito genericamente dalla massima come “dirigere”, rappresenta un modo concreto di sovraintendere all'attività dei lavoratori.
Come già detto in riferimento all’identificazione dei dirigenti, "l’individuazione dei destinatari degli obblighi di prevenzione dagli infortuni sul lavoro va compiuta caso per caso, con riferimento alla organizzazione dell’impresa e alle mansioni esercitate in concreto dai singoli" (Cassazione sez. IV, n. 927 del 29.12.82): possiamo dunque affermare che "in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, il preposto condivide con il datore di lavoro, ma con sfumature diverse secondo le sue reali mansioni, oneri e responsabilità soltanto gli obblighi di sorveglianza, per cui egli non è tenuto a predisporre i mezzi antinfortunistici, essendo questo un obbligo esclusivo del datore di lavoro, ma deve invece vigilare affinché gli ordini vengano regolarmente eseguiti. L'omissione di tale vigilanza costituisce colpa se sia derivato un sinistro dal mancato uso di tali cautele" [Cassazione penale, sez. IV, 21 giugno 1988, Cass. pen. 1989, 1091 (s.m.). Riv. pen. 1989, 377. Giust. pen. 1989, II,362 (s.m.)].
In particolare trattasi di un soggetto, alle dirette dipendenze del datore di lavoro, al quale è attribuita (di fatto, o mediante specifico incarico) una funzione di controllo permanente e di sovrintendenza nello svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare ha ritenuto Cass. Pen. sez. IV, con sentenza del 25/1/1982 n. 745, che “i preposti non esauriscono il loro obbligo con l’impartire generiche disposizioni al personale sottostante, essendo essi tenuti a vigilare sulla concreta attuazione di tali disposizioni e a predisporre i mezzi che si rendano necessari”.
La Giunta provinciale di Trento ha approvato stamane, con una delibera che porta la firma dell'assessore alla salute e politiche sociali, Ugo Rossi, un documento contenente i Criteri di valutazione di edifici o di locali da destinare a luogo di lavoro in ambiente produttivo e nel terziario. Il documento, destinato a committenti e progettisti, è un utile compendio interpretativo delle norme contenute nel titolo II e nell'allegato IV del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81 recante ”Norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro", che disciplina appunto i requisiti di salute e di sicurezza dei lavoratori che devono avere i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro. A tali linee guida, alle quali faranno riferimento gli stessi valutatori dell'Azienda sanitaria, si uniformeranno ora anche tutti i Comuni. Sarà dunque superata in tal modo la disomogeneità interpretativa che ha caratterizato fino ad ora la materia.
"Considerata la complessità della disciplina in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, nonché l’esigenza di omogeneizzare i comportamenti valutativi degli stessi luoghi di lavoro - spiega l'assessore Rossi - abbiamo ritenuto necessario mettere a disposizione di committenti e progettisti una raccolta di elementi, non espressi nel decreto 81/2008, o direttamente interpretativi della stessa, utili ad indirizzare i professionisti verso una corretta applicazione delle norme e che costituiscono un punto di riferimento sufficientemente preciso per quanto attiene ai requisiti minimi connessi all'obiettivo di tutela e sicurezza nel contesto lavorativo. Il provvedimento nulla innova rispetto al decreto legislativo, che rimane norma di riferimento, ma riprende elementi già adottati nella pratica espressione di pareri, di autorizzazioni o di deroga da parte dei servizi competenti dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari , in sintonia anche con quelli presenti in analoghi elaborati di altre Regioni e fa riferimento a normative tecniche o prassi consolidate".
Il documento (in allegato) - elaborato da un apposito gruppo di lavoro costituito presso il Dipartimento Prevenzione dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari e condiviso prima dell'odierna approvazione da parte della Giunta provinciale dalle associazioni di categoria, ordini professionali, collegi ed amministrazioni locali - è articolato in 6 capitoli relativi a: strutture edilizie, servizi, sicurezza e comfort, requisiti specifici per locali destinati ad uffici, requisiti specifici per locali destinati al commercio, locali interrati e seminterrati. In aggiunta si riporta il testo dell'allegato IV del D.Lgs 81/08.
Una legge nazionale degli anni Cinquanta prevede che nei locali interrati e seminterrati non si possano esercitare attività lavorative. Il decreto 81/2008 prevede la possibilità di adibire tali locali a luoghi di lavoro solo tramite una richiesta obbligatoria di autorizzazione in deroga, cosa però non necessaria quando l'utilizzo di detti locali è richiesto da particolari "esigenze tecniche". Quali? Lo spiega, definendo con puntualità cosa si intende per piano interrato, seminterrato, assimilabile ad un piano fuori terra, assimilabile a locale fuori terra, il documento delle linee guida, facendo riferimento alla lavorazione di particolari formaggi, alla coltivazione di funghi e all'affinamento/invecchiamento dei vini.
Per quanto riguarda le cantine vinicole, per altro, il documento non detta alcunché, rimandando alle già chiare disposizioni dettate dalla Giunta provinciale nel novembre 2010 (delibera n.2568 del 12 novembre 2010).
Altra questione affrontata dal gruppo di lavoro che ha redatto il documento: non c'era fino ad ora la distinzione tra destinazione dei locali ad uso industriale o commerciale, con il risultato che spesso si richiedevano per i locali commerciali gli stessi requisiti di quelli industriali. Le Linee guida trentine distinguono invece tra i locali ad uso produttivo, locali di lavoro non presidiati (depositi, magazzini), locali ad uso commerciale e locali destinati ad ufficio, indicando per ogni tipologia i parametri numerici richiesti (superando dunque l'indeterminatezza interpretativa conseguente alla non chiara definizione, contenuta nel decreto 81/2008, dei concetti di "sufficiente", "adeguato" ecc.) per l'illuminazione diretta e artificiale, l'aerazione, il riscaldamento, ecc. Ulteriore distinzione viene fatta tra locali commerciali nuovi e già esistenti.
Da questi esempi si comprende dunque come il problema del decreto 81 fosse la vaghezza di concetti giuridici che rendeva complicato il lavoro dei professionisti ma anche quello dei valutatori. Ora, con le nuove Linee guida l'obiettivo della standardizzazione dei percorsi e di disporre di un quadro tecnico unico e valido per tutti è stato raggiunto. Un notevole passo avanti, dopo un'impasse che durava da dieci anni.