Analizzare le specifiche tutele predisposte per la donna lavoratrice anche nell’ordinamento italiano, prima ancora di affrontare la disciplina specifica della loro sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, significa partire dai primi momenti in cui il nostro Paese si pone tra gli obiettivi primari la promozione dell’uguaglianza e delle pari opportunità uomo-donna.
Il viaggio nella normativa italiana relativa al diritto alle Pari Opportunità tra uomini e donne inizia nel 1919 anno in cui in Italia viene riconosciuta alle donne la capacità giuridica (Legge n. 1176), che cancella l’autorizzazione maritale e consente loro di esercitare tutte le professioni e, buona parte degli impieghi pubblici.
Nello stesso anno viene sfiorata la conquista del suffragio universale femminile, quasi raggiunta con l’approvazione della Camere per il voto amministrativo.
Per il voto legislativo le donne dovranno attendere la fine del periodo fascista e della seconda guerra mondiale: il riconoscimento del diritto di voto alle donne arriverà il 31 gennaio del 1945, su emanazione del Consiglio dei Ministri, Decreto Legislativo Luogo tenenziale 2 febbraio 1945, n. 23.
Nel 1948, la neonata Costituzione Italiana, sancisce il principio di uguaglianza di genere: uomini e donne, in particolare nel mondo del lavoro, hanno diritto al medesimo trattamento.
Riconoscendo la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge a tutti i cittadini(art. 3), la parità tra donne e uomini in ambito lavorativo (art. 4 e 37), l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi all’interno del matrimonio (art. 29) e la parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza (art. 51), la Costituzione pone punti di riferimento importanti per lo sviluppo della normativa futura.
L’8 marzo 2002, per garantire una maggior presenza delle donne nelle cariche pubbliche,viene modificato l’art. 51 della Costituzione. Viene così prevista l’adozione di appositi provvedimenti finalizzati all’attuazione delle pari opportunità fra uomini e donne.
Una svolta storica nel sistema di protezione del lavoro femminile e di lotta alla discriminazione è stata rappresentata dalla Legge Anselmi del 9 dicembre 1977 n. 903, con la quale nell’ordinamento italiano compare la prima nozione di discriminazione diretta.
“È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque
sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.
Così la legge 903, al primo comma, riassume la forza di un intervento basato su un principio fondamentale, quello della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.
Prima di questa legge, la tutela era orientata prevalentemente in una duplice direzione.
Da un lato, la garanzia della parità retributiva, in attuazione dell’art. 37 della Costituzione e della Convenzione O.I.L. n.100 del 29 giugno 1951, ancorata alla parità di mansioni più che alla parità di rendimento. In aggiunta anche la garanzia della stabilità del rapporto di lavoro, sul quale non dovevano incidere situazioni personali di impedimento alla prestazione della lavoratrice, in ragione della tutela anche della maternità e dell’infanzia:
così, la legge 9 gennaio 1963, n. 7 ha vietato il licenziamento per causa di matrimonio e dichiarato illecite le clausole di nubilato;
la legge 30 dicembre 1971 n. 1204 (modificata con la legge 29.2.1980, n. 33 e con la legge 11.3.1983, n. 59) ha disposto una specifica limitazione della capacità professionale della donna nel periodo della maternità e il divieto di licenziamento della donna dall’inizio della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, attribuendo tra l’altro alla lavoratrice-madre una serie di diritti (aspettativa durante il primo anno di vita del bambino, assenze per malattie del bambino di età inferiore a tre anni, riposi per allattamento, etc).
In altra direzione, la tutela era orientata, così come nei confronti dei minori, a porre divieti di adibizione delle donne a lavori ritenuti pregiudizievoli (legge 26 aprile 1934, n. 653), quali il lavoro sotterraneo, il lavoro notturno e i lavori pesanti.
La legge 9 dicembre 1977 n. 903 ha operato, una prima svolta, nel senso di vietare in via generale ogni sorta di discriminazione diretta, nella prospettiva di una tutela paritaria.
La legge in esame non ha cancellato tutte le differenze oggettive tra lavoro maschile e femminile, ma da un punto di vista soggettivo, tende ad adeguare la disciplina normativa ai mutamenti sociali, nella misura in cui si riconosce un diverso ruolo della donna nella società.
Significativa al riguardo è la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha riconosciuto alla donna, nell’ambito del governo della famiglia, una posizione formalmente uguale a quella dell’uomo.
Viene ribaltata la tradizionale prospettiva della tutela differenziata, si mira alla realizzazione di una parità di trattamento, tutelando la donna lavoratrice e creando presupposti per una maggiore autonomia sul piano professionale, personale ed economico.
I benefici che vengono concessi alla donna lavoratrice, possono dunque ricondursi innanzi tutto, alla previsione di una tutela paritaria con particolare riguardo alla retribuzione.
La lavoratrice infatti, ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore e al medesimo inquadramento professionale.
Altrettanto la legge vieta, poi, ogni discriminazione nell’occupazione della lavoratrice anche se attuata per motivi riferibili allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza.
Parimenti è proibito negare la parità in modo indiretto, ad esempio attraverso meccanismi di preselezione (a mezzo stampa o con altre forme pubblicitarie) che indichino come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
È importante sottolineare che, onde evitare che la donna si presenti già discriminata sul mercato del lavoro, si vieta altresì la discriminazione in tutte le iniziative in materia di orientamento e formazione professionale.
A completamento di questa linea d’intervento la legge 903 ha modificato l’ultimo comma dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, estendendo il divieto di discriminazione e le relative sanzioni anche agli atti discriminatori per motivi di sesso, di razze e di lingua.
La legge infine, persegue l’obiettivo della parità di trattamento ai fini previdenziali(assegni familiari, pensione di reversibilità, ecc…).
Pur non innalzando l’età pensionabile delle donne è intervenuta sul collegamento tra età pensionabile e licenziamento individuale;
Il passaggio dalla parità, o meglio dalla non discriminazione, all’uguaglianza è avvenuto principalmente con la Legge 125/1991 che si pone come esplicita attuazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dal 2° comma dell’art 3 della Costituzione,quale principio fondamentale del nostro ordinamento.
Tra i numerosi interventi legislativi che lo Stato italiano ha attuato per regolare il complesso e controverso mondo lavorativo delle donne, la legge 125 del 10 aprile 1991 assume un ruolo di spicco.
Attraverso i suoi molteplici articoli, forma un ideale percorso nella realizzazione delle pari opportunità.
Le finalità della legge “hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne, anche mediante l’adozione di misure al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”.
Le citate “misure” nel lessico giuridico vengono chiamate “azioni positive”, che hanno in particolare lo scopo di:
a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l’orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;
favorire l’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;
c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione nell’avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;
d) promuovere l’inserimento delle donne nelle attività nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;
e) favorire anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore riparazione di tali responsabilità tra i due sessi. In una prospettiva promozionale di tali azioni, è infatti previsto in favore dei datori di lavoro privati e pubblici, associazioni sindacali e dei centri di formazione che attuino progetti di azioni positive,il rimborso totale o parziale, degli oneri finanziari sostenuti in attuazione di essi.
In estrema sintesi le finalità prefissate dalla legge, sono volte ad eliminare le disparità di cui le donne sono oggetto in vari ambiti, dalla formazione scolastica e professionale,all’accesso nel lavoro e nell’avanzamento di carriera.
L’attenzione è posta sull’esigenza di trovare un equilibrio tra le responsabilità familiari e professionali e una più opportuna ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.
Per rendere attuabili le disposizioni sono previsti, tra i vari piani d’intervento, anche incentivi di tipo finanziario alle strutture, pubbliche e private, che adottano i progetti previsti.
Accanto all’introduzione delle c.d. azioni positive, la legge n. 125 ha introdotto rilevanti perfezionamenti sul piano sostanziale e processuale, alla tutela antidiscriminatoria già prevista dalla Legge n. 903/1977.
Per la prima volta nell’ordinamento italiano, si introducono le definizioni di “discriminazione diretta” e “discriminazione indiretta”56. La prima contempla gli atti o i comportamenti che producono un “effetto pregiudizievole” per i lavoratori a causa del sesso, a prescindere dall’intento discriminatorio. La discriminazione indiretta è rappresentata da quei trattamenti pregiudizievoli conseguenti all’adozione di criteri che comportano effetti sfavorevoli ai lavoratori di un sesso e che riguardano requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
La donna lavoratrice è tutelata, anche nelle forme di discriminazione indiretta.
A livello processuale è previsto, un rafforzamento della tutela sul piano probatorio,che costituisce uno degli aspetti di maggiore rilievo della disciplina: più semplicemente tenuto conto delle difficoltà cui può andare incontro la lavoratrice in tema di prova del trattamento discriminatorio, il relativo onere a suo carico è sostanzialmente attenuato ma non eliminato.
La legge 125/91 trova altresì applicazione attraverso una strategia, finalizzata alla realizzazione delle azioni positive, che va dall’istituzione del “Comitato nazionale”per l ‘attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici”, alla definizione dei compiti del Consigliere di Parità presente a livello nazionale, regionale e provinciale per quanto riguarda gli organismi territoriali
di promozione e controllo.
Le azioni positive con gli obiettivi sopra evidenziati, sono promosse da:
• Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici previsto dalla L.125/91, che nasce per promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e gli ostacoli che limitino l’uguaglianza delle donne nell’accesso al lavoro e sul lavoro.
I compiti previsti per il Comitato sono molteplici e vanno dalla formulazione di proposte, compreso lo sviluppo e il perfezionamento della legislazione vigente,all’informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, alla promozione di azioni positive. Ha compiti valutativi nei confronti del finanziamento dei progetti di azioni positive e di controllo circa l’applicazione della legislazione vigente in materia di parità, la raccolta di dati e informazioni sul luogo di lavoro.
Elabora codici di comportamento, propone soluzioni alle controversie collettive, indirizza e promuove un’adeguata rappresentanza di donne negli organismi pubblici nazionali e locali competenti in materia di lavoro e formazione professionale.
• Le/i Consigliere/i di parità che sono nominati con Decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale tra persone che abbiano maturato un’esperienza tecnico-professionale di durata almeno triennale nell’ambito delle pari opportunità.
Sono presenti a livello nazionale, regionale e provinciale e sono componenti della commissione centrale e delle rispettive commissioni regionali per l’impiego e degli organismi di parità presso gli enti locali regionali e provinciali.
Sono pubblici funzionari e hanno l’obbligo di rapporto all’autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni.
Hanno facoltà di agire in giudizio su delega della lavoratrice.
Le loro competenze sono strettamente legate alle finalità della Legge 125/91, per cui possono richiedere all’ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile.
Il D.Lgs. n. 216/2003 ha recepito la direttiva 2000/78/CE stabilendo il divieto di discriminare al momento dell’assunzione e durante la vigenza del contratto di lavoro (sia nel settore pubblico sia in quello privato) in base: alla religione professata, alle convinzioni personali, alla presenza di un handicap, all’età, all’orientamento sessuale.
L’articolo 3 delimita il campo di applicazione dello schema di decreto legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva.
In particolare, il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali.
Si fa, inoltre, salva tutta la normativa nazionale inerente le condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, la sicurezza e la protezione sociale, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ordine pubblico e della salute, la prevenzione dei reati, lo stato civile e le prestazioni che ne derivano le forze armate limitatamente
ai fattori di età e di handicap.
Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi di quanto stabilito nell’articolo 2.
L’art. 3, 3° co. introduce un’eccezione al divieto di discriminare che non trova però alcun riscontro nel testo della direttiva 2000/78/CE. Il testo della norma recita:
«Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima.
Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare»
La formulazione della norma sembra ben distante dal corrispondente testo dell’art.4, 1° co., della direttiva 78/2000/CE:
«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato»
Le perplessità circa la correttezza dell’intervento normativo di recepimento della direttiva europea poi cresce se si analizza il 23° considerando della stessa:
«In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato.
Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione»
Dalle suddette precisazioni si trae, da un lato l’esistenza di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire l’interpretazione dell’art. 3, 3° co. D.Lgs. 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; dall’altro una connotazione della fattispecie fortemente oggettiva, che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli.
L’ articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti. Innanzi tutto, si apporta una modifica all’articolo 15, comma 2, della legge n. 300 del 1970, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento».
In tale modo, si rendono nulli gli atti e i patti del datore di lavoro diretti a fini di discriminazione anche per motivi di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali.
Relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti, al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione dell’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo prevede una particolare azione civile contro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia.
Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001 l’operatività dell’articolo 2729 del codice civile in materia di presunzioni, la possibilità per il giudice, di risarcire il danno non patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento,della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti
e di ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate di tenere conto, al fini della liquidazione dal danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza.
Circa il regime delle prove, la previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico.
Posto che nel nostro sistema il principio dell’inversione della prova esiste solo in alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del codice civile), la legge comunitaria ha optato più genericamente, per un regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte debole che agisce in giudizio:
a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione.
Viene introdotto, così, un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio dei dati statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, rappresentano un importante meccanismo nell’accertamento della sussistenza delle discriminazioni indirette.
L’articolo 5 legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, anche nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
L’articolo 6 prevede la redazione da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di una relazione contenente le informazioni sullo stato di attuazione delle disposizioni del presente decreto da trasmettere alla Commissione europea.
L’articolo 7 precisa che l’applicazione del decreto legislativo non comporta oneri a carico del bilancio dello Stato.
Nel Supplemento Ordinario n. 133 alla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31 maggio 2006,è pubblicato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
La legge 28 novembre 2005, n. 246 intitolata “semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005”, contiene la delega del progetto governativo di riassetto delle pari opportunità.
In base all’art. 6 è stato presentato e realizzato, un progetto governativo di parziale riassetto con il nome di “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.
L’emanato Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”,ha lo scopo di riordinare le disposizioni volte a combattere le discriminazioni oltre che ribadire ed attuare pienamente ed effettivamente il principio di uguaglianza nei rapporti etico-sociali, nei rapporti economici e nei rapporti civili e politici.
In particolare si stabilisce il rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a. individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione,in particolare per cause direttamente o indirettamente fondate sul sesso,la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale, anche al fine di realizzare uno strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di pari opportunità previsti in sede di Unione europea e nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione;
b. adeguamento e semplificazione del linguaggio normativo anche attraverso la rimozione di sovrapposizioni e duplicazioni.
Il Codice delle pari opportunità, non innova ma riordina, sostiene e raccoglie le disposizioni in materia di parità di trattamento fra uomini e donne sinora disperse in leggi e decreti legislativi, oltre che, per quanto concerne le pari opportunità nei rapporti familiari, nel Codice civile.
Per tali ragioni, ritroviamo nel suo testo, gli elementi fondamentali già trattati ed analizzati nei paragrafi precedenti del presente elaborato.
Ripercorriamo i punti fondamentali trattati nel codice:
• il divieto di discriminazione tra uomo e donna con riferimento l’accesso al lavoro,il diritto alla stessa retribuzione, e alla carriera;
• la nullità di atti, patti o provvedimenti adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a comportamenti di molestie, comprese le molestie sessuali;
• l’istituzione della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità;
• la costituzione del Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e di uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici con compiti di promozione e verifica;
• l’istituzione del Collegio istruttorio degli atti relativi alla individuazione e alla rimozione delle discriminazioni.
Il divieto, è posto a qualsiasi tipo di discriminazione che riguardi i seguenti ambiti:
• nell’accesso al lavoro: è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale ( Art. 27);
• nella retribuzione: la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore (Art. 28);
• nelle prestazione lavorativa e nella carriera:è vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera (Art. 29);
• nell’accesso alle prestazioni previdenziali: le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia.
Le prestazioni ai superstiti, erogate dall’assicurazione generale obbligatoria, per l’invalidità,la vecchiaia ed i superstiti, gestita dal Fondo pensioni per i lavoratori dipendenti,sono estese, alle stesse condizioni previste per la moglie dell’assicurato o del pensionato, al marito dell’assicurata o della pensionata. (Art. 30):
• nell’accesso agli impieghi pubblici: la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge (Art. 31);
• nell’arruolamento e reclutamento nelle forze armate e nei corpi speciali:
le Forze armate ed il Corpo della guardia di finanza si avvalgono, per l’espletamento dei propri compiti, di personale maschile e femminile (Art. 32, 33, 34);
• divieto di licenziamento per causa di matrimonio: le clausole di qualsiasi genere,contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte (Art. 35).
L’articolazione minuziosa del codice in Libri, Titoli e Capi è utile, sia perché il codice non è dotato di un indice, sia perché questo consente di avvicinarsi a comprendere dell’articolazione proposta che inizia dalle istituzioni della parità in ambito generale, lavorativo e imprenditoriale per passare a un richiamo ai “rapporti etico-sociali”, però solo in riferimento al nucleo familiare (e con due meri richiami), intervallati dalla parte principale, riservata ai “rapporti economici” (lavoro e impresa) per tornare ai “rapporti civili e politici”, in cui peraltro è confluita la sola disposizione del meccanismo elettorale per il parlamento europeo.
Il Libro I, “Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna”, tratta essenzialmente dell’organizzazione per la promozione delle pari opportunità.
Nel titolo I, l’art. 1 riafferma il divieto generale di discriminazione fra uomini e donne posto dalla legge di ratifica della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979.
Il titolo II contiene e razionalizza le norme che disciplinano l’organizzazione per la promozione delle pari opportunità, attraverso una divisione per capi che corrisponde ai diversi organismi deputati alla promozione delle pari opportunità nei diversi settori (Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, consigliere e consiglieri di parità, Comitato per l’imprenditoria femminile).
L’art. 2 stabilisce, preliminarmente, che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri promuovere e coordinare le azioni di Governo volte ad assicurare pari opportunità,a prevenire e rimuovere le discriminazioni, nonche’ a consentire l’indirizzo, il coordinamento e il monitoraggio della utilizzazione dei relativi fondi europei.
Assumono rilievo, altresì:
• La commissione per le pari opportunità fra uomo e donna (Art. 3):
La Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità, fornisce al Ministro per le pari opportunità,che la presiede, consulenza e supporto tecnico-scientifico nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di pari opportunità fra uomo e donna, sui provvedimenti di competenza dello Stato, ad esclusione di quelli riferiti alla materia della parità fra i sessi nell’accesso al lavoro e sul lavoro;
• Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici (Art. 8) :
Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, promuove, nell’ambito della competenza statale, la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l’uguaglianza fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera;
• Le Consigliere e consiglieri di parità (Art. 12):
Le consigliere ed i consiglieri di parità, effettivi e supplenti, svolgono funzioni di promozione e di controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione tra donne e uomini nel lavoro.
Nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, le consigliere ed i consiglieri di parità sono pubblici ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria dei reati di cui vengono a conoscenza per ragione del loro ufficio.
Sono nominati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, su designazione delle regioni e delle province, sentite le commissioni rispettivamente regionali e provinciali tripartite di cui agli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469.
• Comitato per l’imprenditoria femminile (Art. 21):
Presso il Ministero delle attività produttive opera il Comitato per l’imprenditoria femminile composto dal Ministro delle attività produttive o, per sua delega, da un Sottosegretario di Stato, con funzioni di presidente, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministro delle politiche agricole e forestali, dal Ministro dell’economia e delle finanze, o da loro delegati; da una rappresentante degli istituti di credito, da una rappresentante per ciascuna delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della cooperazione, della piccola industria, del commercio, dell’artigianato, dell’agricoltura, del turismo e dei servizi.
Il Comitato ha compiti di indirizzo e di programmazione generale in ordine agli interventi previsti dal libro III, titolo II; promuove, altresì, lo studio, la ricerca e l’informazione sull’imprenditorialità femminile.
Il Libro II, “Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali” tratta della materia delle pari opportunità nei rapporti etico - sociali, rispetto alla quale, considerata la corposità della disciplina contenuta in altri testi normativi, si è applicata la tecnica di un rinvio integrale a ulteriori luoghi dell’ordinamento, e precisamente il Codice Civile per quanto attiene agli aspetti di pari opportunità nei rapporti tra coniugi e la legge 4 aprile 2001 n. 154 per il contrasto alla violenza nelle relazioni famigliari.
Il Libro III, “Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici”, si articola nelle disposizioni per le pari opportunità nel lavoro (norme antidiscriminatorie relative alle assunzioni, alle retribuzioni, alle carriere, alle prestazioni previdenziali, all’accesso alle forze armate e alle carriere militari; norme anti-molestie sessuali e non, divieto di licenziamento in per causa di matrimonio); per la tutela giudiziaria (vi figurano anche le norme per la legittimazione processuale a tutela di più soggetti e relative all’onere della prova); per la promozione delle pari opportunità (azioni positive e relativi finanziamenti, nel campo del lavoro e della formazione professionale; nel settore radiotelevisivo; nelle pubbliche amministrazioni; nel campo della flessibilità dell’orario di lavoro; nel sostegno della maternità e della paternità) e, infine, per le pari opportunità nell’esercizio dell’attività d’impresa, con le azioni positive a sostegno dell’imprenditoria femminile.
Il Libro IV, “Pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive”, infine, tratta delle norme antidiscriminatorie nella formazione delle liste per le elezioni del Parlamento europeo.
Il libro IV è dedicato, infatti, alle pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civili e politici ed in esso confluisce l’unico provvedimento di legge ordinaria finora emanato in attuazione dell’art. 51 della Costituzione, rappresentato dall’art. 3, comma 1, della legge 8 aprile 2004, n. 90, che promuove le pari opportunità nell’accesso alla carica di membro del Parlamento europeo, in base al quale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
L’art. 58 contiene l’elenco delle disposizioni che, a seguito del loro inserimento nel Codice, vengono abrogate. In base a tale testo, ad esempio, la legge 125/91 sarebbe integralmente abrogata, fatta eccezione per l’art. 11, così come la legge 215/92, ad eccezione degli articoli 10, co. 6, 12 e 13; il decreto legislativo 196/2000, ad eccezione dell’art. 10 co. 4.
Ampliamento delle forme di tutela offerte alle lavoratrici pubbliche e private; previsione di iniziative per evitare ogni forma di discriminazione, basata su ragioni sessuali e per garantire in concreto pari opportunità; rafforzamento delle attribuzioni degli organismi
statali, regionali e locali, in particolare della rete delle consigliere e dei consiglieri di parità, a partire dall’ampliamento della legittimazione attiva e passiva in caso di contenzioso.
Possono essere così sintetizzati gli obiettivi del decreto legislativo 5/2010 «Attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego»,pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 29 del 5 febbraio scorso.
Le nuove disposizioni normative, dettano correzioni che non stravolgono la logica dei provvedimenti in vigore, ma hanno l’intento di allargare le forme di tutela offerte ai cittadini.
Il provvedimento modifica le disposizioni legislative esistenti in questa materia e recepisce le prescrizioni dettate dall’Unione europea.
Il decreto obbliga altresì il Ministro del Lavoro a presentare alla Commissione europea entro il 15 febbraio 2011 una relazione sullo stato di attuazione della direttiva comunitaria per la lotta alle discriminazioni basate sui sessi e a predisporre ogni quattro anni uno specifico documento e a dare conto ogni otto anni dello stato effettivo delle differenze esistenti nel nostro Paese.
Si prevede che dall’applicazione di queste nuove disposizioni non debbano derivare oneri aggiuntivi di qualunque tipo per le pubbliche amministrazioni le quali devono fronteggiare i vincoli posti dalla norma con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili.
I cambiamenti apportati dal decreto legislativo in commento, alla normativa nazionale vigente, potrebbero essere così riassunti.
Le modifiche iniziano dal primo articolo del Codice, riscritto quasi completamente,anche per tener conto delle critiche che erano state a suo tempo avanzate. L’aggiornamento va in almeno tre direzioni: sana il titolo, eliminando il riferimento alla risalente legge del 1985 della dimenticata ratifica della Convenzione di New York;
modifica il primo comma, sostituendo “distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso” con il termine ormai invalso e generale di “discriminazione basata sul sesso”;
aggiunge tre commi, il secondo dei quali destinato a “salvare” le azioni positive,ovvero le azioni che potrebbero incorrere nell’accusa di creare discriminazioni alla rovescia.
È quest’ultimo l’intervento più necessario.
La disposizione riproduce una formula utilizzata a livello di Unione europea (“il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”), anche se diversa da quella prevista dalla direttiva all’articolo 3, secondo cui l’azione positiva consiste in misure “volte ad assicurare nella pratica la piena parità tra gli uomini e le donne nella vita lavorativa”.
Un altro pacchetto di modifiche riguarda le istituzioni della parità di livello nazionale.
Nessuna modifica viene apportata direttamente alla parte del Codice che riprende la normativa sulla Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità, così come quella sul Comitato per l’imprenditoria femminile. Gli articoli di chiusura del decreto legislativo però provvedono a inserire tra i componenti, sia della Commissione che del Comitato, la Consigliera nazionale di parità, integrando i testi dei due regolamenti attuativi nel frattempo emanati.
Gli interventi sono rivolti, quindi, essenzialmente alle istituzioni di parità insediate presso il Ministero del lavoro.
Quanto al Comitato nazionale di parità, le innovazioni riguardano un ampliamento della composizione numerica, così come delle competenze assegnate, che si estendono ora “alle forme pensionistiche complementari collettive”.
I componenti in rappresentanza delle parti sociali passano da cinque a sei.
Il criterio di selezione della rappresentatività, dal lato dei lavoratori e dei datori di lavoro,passa da quello della maggiore rappresentatività a quello della “rappresentanza comparativamente maggiore”.
Crescono anche i rappresentanti degli altri Ministeri e si precisa che la componente dirigenziale del Ministero del lavoro può essere composta anche da funzionari.
L’elencazione dei compiti viene arricchita, sul versante sia del dialogo sociale, sia con gli organismi europei, assorbendo per questa via le indicazioni cui la direttiva dedica appositi articoli.
Le modifiche al Collegio istruttorio riguardano solo la sua composizione.
Quanto alle Consigliere di parità, ai vari livelli (nazionale, regionale e provinciale), le modifiche riguardano: la derubricazione a ruolo secondario della figura della supplente,che si precisa ora “agisce su mandato della consigliera o del consigliere effettivo” e in sua sostituzione;
l’ampliamento delle possibilità di rinnovo del mandato quadriennale, che passano da una a due; la determinazione delle materie per le funzioni di garanzia contro le discriminazioni, incluse le forme pensionistiche complementari collettive, sempre per tener conto della direttiva in recepimento.
Merita soffermarsi sull’aggiunta di ulteriori compiti: svolgere inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro, pubblicare relazioni indipendenti e raccomandazioni in materia di discriminazioni sul lavoro.
L’inserimento conferma la volontà di incentrare sulle consigliere di parità il ruolo richiesto dalla direttiva.
Un terzo blocco di modifiche riguarda la nozione di discriminazione diretta e indiretta e la riconduzione delle molestie e delle molestie sessuali alle discriminazioni.
Per quanto riguarda la nozione di discriminazione diretta, a fronte dell’estensione del riferimento a “atto, patto o comportamento” che diventa ora “disposizione, criterio,prassi, atto, patto o comportamento”, rimane la differenza rispetto alla direttiva per quanto riguarda la visione temporale del trattamento discriminatorio in quanto meno favorevole.
Per la direttiva ci si rivolge non solo al presente ma anche al passato e al futuro facendo riferimento alla comparazione con un’altra persona che “sia, sia stata o sarebbe trattata” diversamente in una situazione analoga.
Minori problemi pone la nozione di discriminazione indiretta, sia pure con alcune differenze rispetto alla nozione assunta a livello europeo, ed è da apprezzare l’inserimento di una apposita disposizione in base alla quale è discriminazione anche “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
La direttiva sul punto si limita a richiamare la gravidanza e il congedo di maternità (art. 2, comma 2, lett. c), senza dar conto del processo di attribuzione di diritti e di coinvolgimento nei ruoli del padre lavoratore.
Importante è anche l’aggiornamento della disposizione dedicata alla discriminazione retributiva, secondo quanto indicato dalla direttiva sul punto (art. 4), anche in questo caso in parte discostandosene.
Un quarto blocco riguarda la parte delle prestazioni previdenziali.
Una prima modifica riguarda le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia che, anziché dover optare per il proseguimento dell’attività, sono ora titolari del “diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini”.
Un articolo specifico viene aggiunto per quanto riguarda le forme pensionistiche complementari collettive, riproducendo la disposizione sul divieto di discriminazione prevista dalla direttiva.
Un quinto blocco riguarda la tutela giudiziaria, con il richiamo delle aree in cui maggiormente si verificano le discriminazioni; con la determinazione diretta della durata dell’arresto e con l’incremento dell’ammontare dell’ammenda; con l’estensione della delega per il ricorso individuale, oltre che alle organizzazioni sindacali, alle “associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso”.
Viene aggiunta una disposizione dedicata alla “vittimizzazione”, sia pure con minore ancoraggio alla protezione dalle ritorsioni, compreso il licenziamento, sul lato oggettivo,e compresi i rappresentanti dei dipendenti, sul lato soggettivo.
Un sesto ambito riguarda il versante speculare consistente nella promozione della parità mediante azioni positive59.
La ormai classica elencazione, inizialmente prevista nella prima parte della legge n. 125/1991, viene implementata dall’aggiunta dell’azione positiva volta a “valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile”.
I rapporti sulla situazione del personale, raccolti dalle rappresentanze sindacali e dalle consigliere regionali di parità, è ora previsto che siano da questi soggetti elaborati,con trasmissione dei risultati alla consigliera di parità nazionale, al Ministero del lavoro e al Dipartimento pari opportunità.
Si inserisce, infine, una disposizione prevista dalla direttiva e dedicata alla “prevenzione delle discriminazioni”, affidando questo ruolo alla contrattazione collettiva, affinché preveda “misure specifiche, ivi compresi codici di condotta, linee guida e
buone prassi”.
Testo unico maternità-paternità - Un limitato intervento di modifica riguarda il Testo unico maternità-paternità.
Si tratta della riscrittura della disposizione sul divieto di discriminazione in questo contenuto (art. 3), in modo da superare il riferimento alla prima legge di parità, quella risalente al 1977, ormai incorporata nel codice parità, e di un modifica alla protezione nei confronti del licenziamento (ultimo comma dell’articolo 54) con un esplicito riferimento all’adozione internazionale e alla necessità di determinare il periodo di decorrenza:
“dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando... ovvero della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento”.
Disposizioni di carattere finanziario - Chiudono il decreto le disposizioni di carattere finanziario, con il divieto di nuovi o maggiori oneri o di minori entrate, e quella dell’invio ogni 4 anni della relazione alla Commissione europea da parte del Ministero del lavoro sullo stato di attuazione della direttiva, come richiesto dalla stessa.
Il viaggio nella normativa italiana relativa al diritto alle Pari Opportunità tra uomini e donne inizia nel 1919 anno in cui in Italia viene riconosciuta alle donne la capacità giuridica (Legge n. 1176), che cancella l’autorizzazione maritale e consente loro di esercitare tutte le professioni e, buona parte degli impieghi pubblici.
Nello stesso anno viene sfiorata la conquista del suffragio universale femminile, quasi raggiunta con l’approvazione della Camere per il voto amministrativo.
Per il voto legislativo le donne dovranno attendere la fine del periodo fascista e della seconda guerra mondiale: il riconoscimento del diritto di voto alle donne arriverà il 31 gennaio del 1945, su emanazione del Consiglio dei Ministri, Decreto Legislativo Luogo tenenziale 2 febbraio 1945, n. 23.
Nel 1948, la neonata Costituzione Italiana, sancisce il principio di uguaglianza di genere: uomini e donne, in particolare nel mondo del lavoro, hanno diritto al medesimo trattamento.
Riconoscendo la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge a tutti i cittadini(art. 3), la parità tra donne e uomini in ambito lavorativo (art. 4 e 37), l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi all’interno del matrimonio (art. 29) e la parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza (art. 51), la Costituzione pone punti di riferimento importanti per lo sviluppo della normativa futura.
L’8 marzo 2002, per garantire una maggior presenza delle donne nelle cariche pubbliche,viene modificato l’art. 51 della Costituzione. Viene così prevista l’adozione di appositi provvedimenti finalizzati all’attuazione delle pari opportunità fra uomini e donne.
Una svolta storica nel sistema di protezione del lavoro femminile e di lotta alla discriminazione è stata rappresentata dalla Legge Anselmi del 9 dicembre 1977 n. 903, con la quale nell’ordinamento italiano compare la prima nozione di discriminazione diretta.
“È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque
sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.
Così la legge 903, al primo comma, riassume la forza di un intervento basato su un principio fondamentale, quello della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.
Prima di questa legge, la tutela era orientata prevalentemente in una duplice direzione.
Da un lato, la garanzia della parità retributiva, in attuazione dell’art. 37 della Costituzione e della Convenzione O.I.L. n.100 del 29 giugno 1951, ancorata alla parità di mansioni più che alla parità di rendimento. In aggiunta anche la garanzia della stabilità del rapporto di lavoro, sul quale non dovevano incidere situazioni personali di impedimento alla prestazione della lavoratrice, in ragione della tutela anche della maternità e dell’infanzia:
così, la legge 9 gennaio 1963, n. 7 ha vietato il licenziamento per causa di matrimonio e dichiarato illecite le clausole di nubilato;
la legge 30 dicembre 1971 n. 1204 (modificata con la legge 29.2.1980, n. 33 e con la legge 11.3.1983, n. 59) ha disposto una specifica limitazione della capacità professionale della donna nel periodo della maternità e il divieto di licenziamento della donna dall’inizio della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, attribuendo tra l’altro alla lavoratrice-madre una serie di diritti (aspettativa durante il primo anno di vita del bambino, assenze per malattie del bambino di età inferiore a tre anni, riposi per allattamento, etc).
In altra direzione, la tutela era orientata, così come nei confronti dei minori, a porre divieti di adibizione delle donne a lavori ritenuti pregiudizievoli (legge 26 aprile 1934, n. 653), quali il lavoro sotterraneo, il lavoro notturno e i lavori pesanti.
La legge 9 dicembre 1977 n. 903 ha operato, una prima svolta, nel senso di vietare in via generale ogni sorta di discriminazione diretta, nella prospettiva di una tutela paritaria.
La legge in esame non ha cancellato tutte le differenze oggettive tra lavoro maschile e femminile, ma da un punto di vista soggettivo, tende ad adeguare la disciplina normativa ai mutamenti sociali, nella misura in cui si riconosce un diverso ruolo della donna nella società.
Significativa al riguardo è la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha riconosciuto alla donna, nell’ambito del governo della famiglia, una posizione formalmente uguale a quella dell’uomo.
Viene ribaltata la tradizionale prospettiva della tutela differenziata, si mira alla realizzazione di una parità di trattamento, tutelando la donna lavoratrice e creando presupposti per una maggiore autonomia sul piano professionale, personale ed economico.
I benefici che vengono concessi alla donna lavoratrice, possono dunque ricondursi innanzi tutto, alla previsione di una tutela paritaria con particolare riguardo alla retribuzione.
La lavoratrice infatti, ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore e al medesimo inquadramento professionale.
Altrettanto la legge vieta, poi, ogni discriminazione nell’occupazione della lavoratrice anche se attuata per motivi riferibili allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza.
Parimenti è proibito negare la parità in modo indiretto, ad esempio attraverso meccanismi di preselezione (a mezzo stampa o con altre forme pubblicitarie) che indichino come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
È importante sottolineare che, onde evitare che la donna si presenti già discriminata sul mercato del lavoro, si vieta altresì la discriminazione in tutte le iniziative in materia di orientamento e formazione professionale.
A completamento di questa linea d’intervento la legge 903 ha modificato l’ultimo comma dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, estendendo il divieto di discriminazione e le relative sanzioni anche agli atti discriminatori per motivi di sesso, di razze e di lingua.
La legge infine, persegue l’obiettivo della parità di trattamento ai fini previdenziali(assegni familiari, pensione di reversibilità, ecc…).
Pur non innalzando l’età pensionabile delle donne è intervenuta sul collegamento tra età pensionabile e licenziamento individuale;
Il passaggio dalla parità, o meglio dalla non discriminazione, all’uguaglianza è avvenuto principalmente con la Legge 125/1991 che si pone come esplicita attuazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dal 2° comma dell’art 3 della Costituzione,quale principio fondamentale del nostro ordinamento.
Tra i numerosi interventi legislativi che lo Stato italiano ha attuato per regolare il complesso e controverso mondo lavorativo delle donne, la legge 125 del 10 aprile 1991 assume un ruolo di spicco.
Attraverso i suoi molteplici articoli, forma un ideale percorso nella realizzazione delle pari opportunità.
Le finalità della legge “hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne, anche mediante l’adozione di misure al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”.
Le citate “misure” nel lessico giuridico vengono chiamate “azioni positive”, che hanno in particolare lo scopo di:
a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l’orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;
favorire l’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;
c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione nell’avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;
d) promuovere l’inserimento delle donne nelle attività nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;
e) favorire anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore riparazione di tali responsabilità tra i due sessi. In una prospettiva promozionale di tali azioni, è infatti previsto in favore dei datori di lavoro privati e pubblici, associazioni sindacali e dei centri di formazione che attuino progetti di azioni positive,il rimborso totale o parziale, degli oneri finanziari sostenuti in attuazione di essi.
In estrema sintesi le finalità prefissate dalla legge, sono volte ad eliminare le disparità di cui le donne sono oggetto in vari ambiti, dalla formazione scolastica e professionale,all’accesso nel lavoro e nell’avanzamento di carriera.
L’attenzione è posta sull’esigenza di trovare un equilibrio tra le responsabilità familiari e professionali e una più opportuna ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.
Per rendere attuabili le disposizioni sono previsti, tra i vari piani d’intervento, anche incentivi di tipo finanziario alle strutture, pubbliche e private, che adottano i progetti previsti.
Accanto all’introduzione delle c.d. azioni positive, la legge n. 125 ha introdotto rilevanti perfezionamenti sul piano sostanziale e processuale, alla tutela antidiscriminatoria già prevista dalla Legge n. 903/1977.
Per la prima volta nell’ordinamento italiano, si introducono le definizioni di “discriminazione diretta” e “discriminazione indiretta”56. La prima contempla gli atti o i comportamenti che producono un “effetto pregiudizievole” per i lavoratori a causa del sesso, a prescindere dall’intento discriminatorio. La discriminazione indiretta è rappresentata da quei trattamenti pregiudizievoli conseguenti all’adozione di criteri che comportano effetti sfavorevoli ai lavoratori di un sesso e che riguardano requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
La donna lavoratrice è tutelata, anche nelle forme di discriminazione indiretta.
A livello processuale è previsto, un rafforzamento della tutela sul piano probatorio,che costituisce uno degli aspetti di maggiore rilievo della disciplina: più semplicemente tenuto conto delle difficoltà cui può andare incontro la lavoratrice in tema di prova del trattamento discriminatorio, il relativo onere a suo carico è sostanzialmente attenuato ma non eliminato.
La legge 125/91 trova altresì applicazione attraverso una strategia, finalizzata alla realizzazione delle azioni positive, che va dall’istituzione del “Comitato nazionale”per l ‘attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici”, alla definizione dei compiti del Consigliere di Parità presente a livello nazionale, regionale e provinciale per quanto riguarda gli organismi territoriali
di promozione e controllo.
Le azioni positive con gli obiettivi sopra evidenziati, sono promosse da:
• Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici previsto dalla L.125/91, che nasce per promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e gli ostacoli che limitino l’uguaglianza delle donne nell’accesso al lavoro e sul lavoro.
I compiti previsti per il Comitato sono molteplici e vanno dalla formulazione di proposte, compreso lo sviluppo e il perfezionamento della legislazione vigente,all’informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, alla promozione di azioni positive. Ha compiti valutativi nei confronti del finanziamento dei progetti di azioni positive e di controllo circa l’applicazione della legislazione vigente in materia di parità, la raccolta di dati e informazioni sul luogo di lavoro.
Elabora codici di comportamento, propone soluzioni alle controversie collettive, indirizza e promuove un’adeguata rappresentanza di donne negli organismi pubblici nazionali e locali competenti in materia di lavoro e formazione professionale.
• Le/i Consigliere/i di parità che sono nominati con Decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale tra persone che abbiano maturato un’esperienza tecnico-professionale di durata almeno triennale nell’ambito delle pari opportunità.
Sono presenti a livello nazionale, regionale e provinciale e sono componenti della commissione centrale e delle rispettive commissioni regionali per l’impiego e degli organismi di parità presso gli enti locali regionali e provinciali.
Sono pubblici funzionari e hanno l’obbligo di rapporto all’autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni.
Hanno facoltà di agire in giudizio su delega della lavoratrice.
Le loro competenze sono strettamente legate alle finalità della Legge 125/91, per cui possono richiedere all’ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile.
Il D.Lgs. n. 216/2003 ha recepito la direttiva 2000/78/CE stabilendo il divieto di discriminare al momento dell’assunzione e durante la vigenza del contratto di lavoro (sia nel settore pubblico sia in quello privato) in base: alla religione professata, alle convinzioni personali, alla presenza di un handicap, all’età, all’orientamento sessuale.
L’articolo 3 delimita il campo di applicazione dello schema di decreto legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva.
In particolare, il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali.
Si fa, inoltre, salva tutta la normativa nazionale inerente le condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, la sicurezza e la protezione sociale, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ordine pubblico e della salute, la prevenzione dei reati, lo stato civile e le prestazioni che ne derivano le forze armate limitatamente
ai fattori di età e di handicap.
Si prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi di quanto stabilito nell’articolo 2.
L’art. 3, 3° co. introduce un’eccezione al divieto di discriminare che non trova però alcun riscontro nel testo della direttiva 2000/78/CE. Il testo della norma recita:
«Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima.
Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare»
La formulazione della norma sembra ben distante dal corrispondente testo dell’art.4, 1° co., della direttiva 78/2000/CE:
«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato»
Le perplessità circa la correttezza dell’intervento normativo di recepimento della direttiva europea poi cresce se si analizza il 23° considerando della stessa:
«In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato.
Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione»
Dalle suddette precisazioni si trae, da un lato l’esistenza di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire l’interpretazione dell’art. 3, 3° co. D.Lgs. 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; dall’altro una connotazione della fattispecie fortemente oggettiva, che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli.
L’ articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti. Innanzi tutto, si apporta una modifica all’articolo 15, comma 2, della legge n. 300 del 1970, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento».
In tale modo, si rendono nulli gli atti e i patti del datore di lavoro diretti a fini di discriminazione anche per motivi di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali.
Relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti, al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione dell’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo prevede una particolare azione civile contro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia.
Si prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001 l’operatività dell’articolo 2729 del codice civile in materia di presunzioni, la possibilità per il giudice, di risarcire il danno non patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento,della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti
e di ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate di tenere conto, al fini della liquidazione dal danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza.
Circa il regime delle prove, la previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico.
Posto che nel nostro sistema il principio dell’inversione della prova esiste solo in alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del codice civile), la legge comunitaria ha optato più genericamente, per un regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte debole che agisce in giudizio:
a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione.
Viene introdotto, così, un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio dei dati statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, rappresentano un importante meccanismo nell’accertamento della sussistenza delle discriminazioni indirette.
L’articolo 5 legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, anche nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
L’articolo 6 prevede la redazione da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di una relazione contenente le informazioni sullo stato di attuazione delle disposizioni del presente decreto da trasmettere alla Commissione europea.
L’articolo 7 precisa che l’applicazione del decreto legislativo non comporta oneri a carico del bilancio dello Stato.
Nel Supplemento Ordinario n. 133 alla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31 maggio 2006,è pubblicato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
La legge 28 novembre 2005, n. 246 intitolata “semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005”, contiene la delega del progetto governativo di riassetto delle pari opportunità.
In base all’art. 6 è stato presentato e realizzato, un progetto governativo di parziale riassetto con il nome di “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.
L’emanato Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”,ha lo scopo di riordinare le disposizioni volte a combattere le discriminazioni oltre che ribadire ed attuare pienamente ed effettivamente il principio di uguaglianza nei rapporti etico-sociali, nei rapporti economici e nei rapporti civili e politici.
In particolare si stabilisce il rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a. individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione,in particolare per cause direttamente o indirettamente fondate sul sesso,la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale, anche al fine di realizzare uno strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di pari opportunità previsti in sede di Unione europea e nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione;
b. adeguamento e semplificazione del linguaggio normativo anche attraverso la rimozione di sovrapposizioni e duplicazioni.
Il Codice delle pari opportunità, non innova ma riordina, sostiene e raccoglie le disposizioni in materia di parità di trattamento fra uomini e donne sinora disperse in leggi e decreti legislativi, oltre che, per quanto concerne le pari opportunità nei rapporti familiari, nel Codice civile.
Per tali ragioni, ritroviamo nel suo testo, gli elementi fondamentali già trattati ed analizzati nei paragrafi precedenti del presente elaborato.
Ripercorriamo i punti fondamentali trattati nel codice:
• il divieto di discriminazione tra uomo e donna con riferimento l’accesso al lavoro,il diritto alla stessa retribuzione, e alla carriera;
• la nullità di atti, patti o provvedimenti adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a comportamenti di molestie, comprese le molestie sessuali;
• l’istituzione della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità;
• la costituzione del Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e di uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici con compiti di promozione e verifica;
• l’istituzione del Collegio istruttorio degli atti relativi alla individuazione e alla rimozione delle discriminazioni.
Il divieto, è posto a qualsiasi tipo di discriminazione che riguardi i seguenti ambiti:
• nell’accesso al lavoro: è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale ( Art. 27);
• nella retribuzione: la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore (Art. 28);
• nelle prestazione lavorativa e nella carriera:è vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera (Art. 29);
• nell’accesso alle prestazioni previdenziali: le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia.
Le prestazioni ai superstiti, erogate dall’assicurazione generale obbligatoria, per l’invalidità,la vecchiaia ed i superstiti, gestita dal Fondo pensioni per i lavoratori dipendenti,sono estese, alle stesse condizioni previste per la moglie dell’assicurato o del pensionato, al marito dell’assicurata o della pensionata. (Art. 30):
• nell’accesso agli impieghi pubblici: la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge (Art. 31);
• nell’arruolamento e reclutamento nelle forze armate e nei corpi speciali:
le Forze armate ed il Corpo della guardia di finanza si avvalgono, per l’espletamento dei propri compiti, di personale maschile e femminile (Art. 32, 33, 34);
• divieto di licenziamento per causa di matrimonio: le clausole di qualsiasi genere,contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte (Art. 35).
L’articolazione minuziosa del codice in Libri, Titoli e Capi è utile, sia perché il codice non è dotato di un indice, sia perché questo consente di avvicinarsi a comprendere dell’articolazione proposta che inizia dalle istituzioni della parità in ambito generale, lavorativo e imprenditoriale per passare a un richiamo ai “rapporti etico-sociali”, però solo in riferimento al nucleo familiare (e con due meri richiami), intervallati dalla parte principale, riservata ai “rapporti economici” (lavoro e impresa) per tornare ai “rapporti civili e politici”, in cui peraltro è confluita la sola disposizione del meccanismo elettorale per il parlamento europeo.
Il Libro I, “Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna”, tratta essenzialmente dell’organizzazione per la promozione delle pari opportunità.
Nel titolo I, l’art. 1 riafferma il divieto generale di discriminazione fra uomini e donne posto dalla legge di ratifica della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979.
Il titolo II contiene e razionalizza le norme che disciplinano l’organizzazione per la promozione delle pari opportunità, attraverso una divisione per capi che corrisponde ai diversi organismi deputati alla promozione delle pari opportunità nei diversi settori (Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, consigliere e consiglieri di parità, Comitato per l’imprenditoria femminile).
L’art. 2 stabilisce, preliminarmente, che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri promuovere e coordinare le azioni di Governo volte ad assicurare pari opportunità,a prevenire e rimuovere le discriminazioni, nonche’ a consentire l’indirizzo, il coordinamento e il monitoraggio della utilizzazione dei relativi fondi europei.
Assumono rilievo, altresì:
• La commissione per le pari opportunità fra uomo e donna (Art. 3):
La Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità, fornisce al Ministro per le pari opportunità,che la presiede, consulenza e supporto tecnico-scientifico nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di pari opportunità fra uomo e donna, sui provvedimenti di competenza dello Stato, ad esclusione di quelli riferiti alla materia della parità fra i sessi nell’accesso al lavoro e sul lavoro;
• Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici (Art. 8) :
Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, promuove, nell’ambito della competenza statale, la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l’uguaglianza fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera;
• Le Consigliere e consiglieri di parità (Art. 12):
Le consigliere ed i consiglieri di parità, effettivi e supplenti, svolgono funzioni di promozione e di controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione tra donne e uomini nel lavoro.
Nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, le consigliere ed i consiglieri di parità sono pubblici ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria dei reati di cui vengono a conoscenza per ragione del loro ufficio.
Sono nominati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, su designazione delle regioni e delle province, sentite le commissioni rispettivamente regionali e provinciali tripartite di cui agli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469.
• Comitato per l’imprenditoria femminile (Art. 21):
Presso il Ministero delle attività produttive opera il Comitato per l’imprenditoria femminile composto dal Ministro delle attività produttive o, per sua delega, da un Sottosegretario di Stato, con funzioni di presidente, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministro delle politiche agricole e forestali, dal Ministro dell’economia e delle finanze, o da loro delegati; da una rappresentante degli istituti di credito, da una rappresentante per ciascuna delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della cooperazione, della piccola industria, del commercio, dell’artigianato, dell’agricoltura, del turismo e dei servizi.
Il Comitato ha compiti di indirizzo e di programmazione generale in ordine agli interventi previsti dal libro III, titolo II; promuove, altresì, lo studio, la ricerca e l’informazione sull’imprenditorialità femminile.
Il Libro II, “Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali” tratta della materia delle pari opportunità nei rapporti etico - sociali, rispetto alla quale, considerata la corposità della disciplina contenuta in altri testi normativi, si è applicata la tecnica di un rinvio integrale a ulteriori luoghi dell’ordinamento, e precisamente il Codice Civile per quanto attiene agli aspetti di pari opportunità nei rapporti tra coniugi e la legge 4 aprile 2001 n. 154 per il contrasto alla violenza nelle relazioni famigliari.
Il Libro III, “Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici”, si articola nelle disposizioni per le pari opportunità nel lavoro (norme antidiscriminatorie relative alle assunzioni, alle retribuzioni, alle carriere, alle prestazioni previdenziali, all’accesso alle forze armate e alle carriere militari; norme anti-molestie sessuali e non, divieto di licenziamento in per causa di matrimonio); per la tutela giudiziaria (vi figurano anche le norme per la legittimazione processuale a tutela di più soggetti e relative all’onere della prova); per la promozione delle pari opportunità (azioni positive e relativi finanziamenti, nel campo del lavoro e della formazione professionale; nel settore radiotelevisivo; nelle pubbliche amministrazioni; nel campo della flessibilità dell’orario di lavoro; nel sostegno della maternità e della paternità) e, infine, per le pari opportunità nell’esercizio dell’attività d’impresa, con le azioni positive a sostegno dell’imprenditoria femminile.
Il Libro IV, “Pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive”, infine, tratta delle norme antidiscriminatorie nella formazione delle liste per le elezioni del Parlamento europeo.
Il libro IV è dedicato, infatti, alle pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civili e politici ed in esso confluisce l’unico provvedimento di legge ordinaria finora emanato in attuazione dell’art. 51 della Costituzione, rappresentato dall’art. 3, comma 1, della legge 8 aprile 2004, n. 90, che promuove le pari opportunità nell’accesso alla carica di membro del Parlamento europeo, in base al quale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
L’art. 58 contiene l’elenco delle disposizioni che, a seguito del loro inserimento nel Codice, vengono abrogate. In base a tale testo, ad esempio, la legge 125/91 sarebbe integralmente abrogata, fatta eccezione per l’art. 11, così come la legge 215/92, ad eccezione degli articoli 10, co. 6, 12 e 13; il decreto legislativo 196/2000, ad eccezione dell’art. 10 co. 4.
Ampliamento delle forme di tutela offerte alle lavoratrici pubbliche e private; previsione di iniziative per evitare ogni forma di discriminazione, basata su ragioni sessuali e per garantire in concreto pari opportunità; rafforzamento delle attribuzioni degli organismi
statali, regionali e locali, in particolare della rete delle consigliere e dei consiglieri di parità, a partire dall’ampliamento della legittimazione attiva e passiva in caso di contenzioso.
Possono essere così sintetizzati gli obiettivi del decreto legislativo 5/2010 «Attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego»,pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 29 del 5 febbraio scorso.
Le nuove disposizioni normative, dettano correzioni che non stravolgono la logica dei provvedimenti in vigore, ma hanno l’intento di allargare le forme di tutela offerte ai cittadini.
Il provvedimento modifica le disposizioni legislative esistenti in questa materia e recepisce le prescrizioni dettate dall’Unione europea.
Il decreto obbliga altresì il Ministro del Lavoro a presentare alla Commissione europea entro il 15 febbraio 2011 una relazione sullo stato di attuazione della direttiva comunitaria per la lotta alle discriminazioni basate sui sessi e a predisporre ogni quattro anni uno specifico documento e a dare conto ogni otto anni dello stato effettivo delle differenze esistenti nel nostro Paese.
Si prevede che dall’applicazione di queste nuove disposizioni non debbano derivare oneri aggiuntivi di qualunque tipo per le pubbliche amministrazioni le quali devono fronteggiare i vincoli posti dalla norma con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili.
I cambiamenti apportati dal decreto legislativo in commento, alla normativa nazionale vigente, potrebbero essere così riassunti.
Le modifiche iniziano dal primo articolo del Codice, riscritto quasi completamente,anche per tener conto delle critiche che erano state a suo tempo avanzate. L’aggiornamento va in almeno tre direzioni: sana il titolo, eliminando il riferimento alla risalente legge del 1985 della dimenticata ratifica della Convenzione di New York;
modifica il primo comma, sostituendo “distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso” con il termine ormai invalso e generale di “discriminazione basata sul sesso”;
aggiunge tre commi, il secondo dei quali destinato a “salvare” le azioni positive,ovvero le azioni che potrebbero incorrere nell’accusa di creare discriminazioni alla rovescia.
È quest’ultimo l’intervento più necessario.
La disposizione riproduce una formula utilizzata a livello di Unione europea (“il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”), anche se diversa da quella prevista dalla direttiva all’articolo 3, secondo cui l’azione positiva consiste in misure “volte ad assicurare nella pratica la piena parità tra gli uomini e le donne nella vita lavorativa”.
Un altro pacchetto di modifiche riguarda le istituzioni della parità di livello nazionale.
Nessuna modifica viene apportata direttamente alla parte del Codice che riprende la normativa sulla Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità, così come quella sul Comitato per l’imprenditoria femminile. Gli articoli di chiusura del decreto legislativo però provvedono a inserire tra i componenti, sia della Commissione che del Comitato, la Consigliera nazionale di parità, integrando i testi dei due regolamenti attuativi nel frattempo emanati.
Gli interventi sono rivolti, quindi, essenzialmente alle istituzioni di parità insediate presso il Ministero del lavoro.
Quanto al Comitato nazionale di parità, le innovazioni riguardano un ampliamento della composizione numerica, così come delle competenze assegnate, che si estendono ora “alle forme pensionistiche complementari collettive”.
I componenti in rappresentanza delle parti sociali passano da cinque a sei.
Il criterio di selezione della rappresentatività, dal lato dei lavoratori e dei datori di lavoro,passa da quello della maggiore rappresentatività a quello della “rappresentanza comparativamente maggiore”.
Crescono anche i rappresentanti degli altri Ministeri e si precisa che la componente dirigenziale del Ministero del lavoro può essere composta anche da funzionari.
L’elencazione dei compiti viene arricchita, sul versante sia del dialogo sociale, sia con gli organismi europei, assorbendo per questa via le indicazioni cui la direttiva dedica appositi articoli.
Le modifiche al Collegio istruttorio riguardano solo la sua composizione.
Quanto alle Consigliere di parità, ai vari livelli (nazionale, regionale e provinciale), le modifiche riguardano: la derubricazione a ruolo secondario della figura della supplente,che si precisa ora “agisce su mandato della consigliera o del consigliere effettivo” e in sua sostituzione;
l’ampliamento delle possibilità di rinnovo del mandato quadriennale, che passano da una a due; la determinazione delle materie per le funzioni di garanzia contro le discriminazioni, incluse le forme pensionistiche complementari collettive, sempre per tener conto della direttiva in recepimento.
Merita soffermarsi sull’aggiunta di ulteriori compiti: svolgere inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro, pubblicare relazioni indipendenti e raccomandazioni in materia di discriminazioni sul lavoro.
L’inserimento conferma la volontà di incentrare sulle consigliere di parità il ruolo richiesto dalla direttiva.
Un terzo blocco di modifiche riguarda la nozione di discriminazione diretta e indiretta e la riconduzione delle molestie e delle molestie sessuali alle discriminazioni.
Per quanto riguarda la nozione di discriminazione diretta, a fronte dell’estensione del riferimento a “atto, patto o comportamento” che diventa ora “disposizione, criterio,prassi, atto, patto o comportamento”, rimane la differenza rispetto alla direttiva per quanto riguarda la visione temporale del trattamento discriminatorio in quanto meno favorevole.
Per la direttiva ci si rivolge non solo al presente ma anche al passato e al futuro facendo riferimento alla comparazione con un’altra persona che “sia, sia stata o sarebbe trattata” diversamente in una situazione analoga.
Minori problemi pone la nozione di discriminazione indiretta, sia pure con alcune differenze rispetto alla nozione assunta a livello europeo, ed è da apprezzare l’inserimento di una apposita disposizione in base alla quale è discriminazione anche “ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
La direttiva sul punto si limita a richiamare la gravidanza e il congedo di maternità (art. 2, comma 2, lett. c), senza dar conto del processo di attribuzione di diritti e di coinvolgimento nei ruoli del padre lavoratore.
Importante è anche l’aggiornamento della disposizione dedicata alla discriminazione retributiva, secondo quanto indicato dalla direttiva sul punto (art. 4), anche in questo caso in parte discostandosene.
Un quarto blocco riguarda la parte delle prestazioni previdenziali.
Una prima modifica riguarda le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia che, anziché dover optare per il proseguimento dell’attività, sono ora titolari del “diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini”.
Un articolo specifico viene aggiunto per quanto riguarda le forme pensionistiche complementari collettive, riproducendo la disposizione sul divieto di discriminazione prevista dalla direttiva.
Un quinto blocco riguarda la tutela giudiziaria, con il richiamo delle aree in cui maggiormente si verificano le discriminazioni; con la determinazione diretta della durata dell’arresto e con l’incremento dell’ammontare dell’ammenda; con l’estensione della delega per il ricorso individuale, oltre che alle organizzazioni sindacali, alle “associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso”.
Viene aggiunta una disposizione dedicata alla “vittimizzazione”, sia pure con minore ancoraggio alla protezione dalle ritorsioni, compreso il licenziamento, sul lato oggettivo,e compresi i rappresentanti dei dipendenti, sul lato soggettivo.
Un sesto ambito riguarda il versante speculare consistente nella promozione della parità mediante azioni positive59.
La ormai classica elencazione, inizialmente prevista nella prima parte della legge n. 125/1991, viene implementata dall’aggiunta dell’azione positiva volta a “valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile”.
I rapporti sulla situazione del personale, raccolti dalle rappresentanze sindacali e dalle consigliere regionali di parità, è ora previsto che siano da questi soggetti elaborati,con trasmissione dei risultati alla consigliera di parità nazionale, al Ministero del lavoro e al Dipartimento pari opportunità.
Si inserisce, infine, una disposizione prevista dalla direttiva e dedicata alla “prevenzione delle discriminazioni”, affidando questo ruolo alla contrattazione collettiva, affinché preveda “misure specifiche, ivi compresi codici di condotta, linee guida e
buone prassi”.
Testo unico maternità-paternità - Un limitato intervento di modifica riguarda il Testo unico maternità-paternità.
Si tratta della riscrittura della disposizione sul divieto di discriminazione in questo contenuto (art. 3), in modo da superare il riferimento alla prima legge di parità, quella risalente al 1977, ormai incorporata nel codice parità, e di un modifica alla protezione nei confronti del licenziamento (ultimo comma dell’articolo 54) con un esplicito riferimento all’adozione internazionale e alla necessità di determinare il periodo di decorrenza:
“dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando... ovvero della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento”.
Disposizioni di carattere finanziario - Chiudono il decreto le disposizioni di carattere finanziario, con il divieto di nuovi o maggiori oneri o di minori entrate, e quella dell’invio ogni 4 anni della relazione alla Commissione europea da parte del Ministero del lavoro sullo stato di attuazione della direttiva, come richiesto dalla stessa.
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